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Monologo di uno spirito inquieto




«Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira»,

additandomi un balzo poco in sùe

che da quel lato il poggio tutto gira.


Sì mi spronaron le parole sue,

ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,

tanto che ‘l cinghio sotto i piè mi fue.


A seder ci ponemmo ivi ambedui

vòlti a levante ond’eravam saliti,

che suole a riguardar giovare altrui.


Dante, “Purgatorio”, canto IV, vv. 46-54



Butto lo zaino accanto al letto e con un guizzo di energia inaspettato mi fiondo sul materasso soffice, unico rifugio che per ora reputo sicuro. L’abbraccio delle coperte sgualcite, dei pupazzi sorridenti e della montagna di vestiti da piegare è avvolgente e inerte allo stesso tempo. Mi raggomitolo un po’ su me stessa e, chiusi gli occhi, do avvio al mio percorso di astrazione e immagino di essere in mezzo al mare sdraiata a pancia in giù a bordo di una zattera più o meno galleggiante. Mi sento inquieta e fatico a trovarne la ragione, sembra quasi che sia alla disperata ricerca di un qualcosa di inidentificabile e che non so se cercare fuori, attorno o addirittura dentro di me. Chiudo gli occhi più forte e cerco di pensare a qualcuno con cui potermi sfogare, qualcuno che come Virgilio si segga con me, prenda i miei problemi, me li sgretoli davanti e mi accompagni lungo la retta via. Sospiro. Arriverò mai anche io a sentirmi finalmente il tanto aspirato cinghio sotto i piè come Dante? Quando potrò definirmi “arrivata”, quando mi sentirò pienamente compiuta? Vorrei anch’io, proprio come i due pellegrini in viaggio lungo il monte del Purgatorio, poter contemplare compiaciuta le fatiche nella loro sfumatura di istanze passate e destinate a vivere solo nei ricordi, cosa che indubbiamente suole a riguardar giovare altrui. E invece no, pare che il nostro destino sia quello di non cogliere nemmeno un barlume del magma cosmico in cui siamo immersi e di non avere la possibilità di poter scrutare nel suo insieme il disegno che stiamo tracciando, anche solo per capire se stiamo dando frutto a qualcosa di sensato o meno.

E allora decido di cambiare prospettiva e mi giro a pancia in su. Forse è inutile cercare al di fuori qualcuno che mi salvi. Forse il trucco è provare a instaurare un dialogo con lo “spirto guerrier ch’entro mi rugge” - cesserò prima o poi di parlare solo per citazioni, promesso -, oppure, più che un dialogo, una mediazione. Così mi alzo barcollando leggermente e guardo in faccia la mia inquietudine, in piedi davanti a me, spavalda. La prendo per mano e cerco di rassicurarla, talvolta illudendola e dicendo cose puramente campate in aria. Ma si tratta di un inganno consapevole e gratuito, che ci fa stare bene insieme. Spesso, confesso, nelle situazioni difficili mi trovo a giocare con il mio io e ad inventarmi l’esistenza di un varco immaginario attraverso la coltre di nebbia. Chissà, forse questo accade solo in attesa di un qualcuno che emerga dalle onde e alle cui parole «figliuol mio, infin quivi ti tira» io possa voltarmi e sorridere.


Giulia Corradini, 4P




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