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UN’OCCUPAZIONE TRA IL DIONISIACO E IL CARNEVALESCO

Aggiornamento: 26 apr 2022



È passato ormai un mese dall’esplosione, il tempo necessario affinché le nubi da essa create pian piano si dissolvessero e se ne andassero del tutto, lasciando finalmente spazio alla chiarezza. Ora che è più facile interpretare la tanto discussa occupazione, si può e si deve andare oltre l’idea che sia stata solo una moda.

È evidente che la comunità studentesca nutrisse ormai da molto tempo, quantificabile in circa due anni, una serie difficilmente sintetizzabile di fenomeni, circostanze e attitudini a noi ben note, che ha contribuito ad aumentare la pressione all’interno di quella grande pentola che chiamiamo scuola.

D’altronde la scuola è il luogo dove noi ragazzi passiamo la maggior parte della nostra vita, dove formiamo la nostra identità, ed è quindi anche il luogo che più ci rappresenta all’interno della società. Lamentarsi a casa è un conto, riguarda l'individualità; farlo a scuola, in quanto membri di una comunità, assume un significato radicalmente diverso. Sfogare all’interno delle mura scolastiche il bisogno di esplodere ha permesso quindi di trasporre l'insoddisfazione personale ad una dimensione collettiva, ed è stata questa la dinamica alla base dell’occupazione del Galvani (e di molte altre scuole), al di là di tutte le motivazioni scritte sul Manifesto. Le giornate del 21 e del 25 marzo hanno posto i limiti temporali per dare voce al disagio di noi adolescenti, che abbiamo occupato in quanto ragazzi e non solo studenti, e l’abbiamo fatto andando contro le regole, proprio perché di regole e restrizioni non ne potevamo più.

Finita l’occupazione, l’ordine è tornato e ognuno, a modo suo, ha avuto il tempo di pensare al significato di tutto ciò. Io ho pensato a Dioniso, e poi anche al Carnevale.

Ogni due anni, nell’Antica Grecia, si svolgeva il rito di Dioniso, dio dell’energia vitale (in greco, zoé), che veniva vissuta nella distruzione dell’individualità e nella perdita del proprio confine. Al rito partecipavano soprattutto le donne, dette Menadi o Baccanti, che si lanciavano in una corsa sfrenata nel bosco in preda al furor dionisiaco, danzando e cantando in modo selvaggio al ritmo dei tympana (dal latino, tamburi). Questa religiosità estatico-orgiastica era completamente anti identitaria, perché ogni donna abbandonava la propria individualità e si dissolveva nel tiaso, ossia il gruppo delle Menadi, al fine di ritrovare la propria natura selvaggia e irrazionale. Il carattere fusionale del rito prevedeva azioni alquanto cruente, a partire dallo sparagmòs, l’atto di lacerare gli animali, seguito dall’omofagìa, ovvero il momento in cui la carne cruda veniva mangiata. Tale legame con il mondo selvaggio rappresentava l'impulso irrefrenabile di sovversione di ogni limite e regola, una pulsione ovviamente dannosa per la comunità, nondimeno un bisogno umano avvertito soprattutto dalle donne, le più represse dagli schemi sociali dell’antichità.

V’era quindi la necessità di istituire un momento per canalizzare tali sfoghi irrazionali, e questo momento era il rito dionisiaco, al termine del quale si tornava alla normalità. La funzione del rito era infatti catartica, ossia puntava alla purificazione delle pulsioni antisociali per poi ristabilire un ordine.

Facciamo ora un salto nel tempo, approdando al Carnevale, che nel Medioevo consisteva nel totale rovesciamento dell'ordine sociale attraverso l'abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, delle regole e dei tabù, tutti tasselli di una società rigida che non dava spazio alla libertà. Nelle settimane prima delle Quaresima si edificava, accanto al mondo ufficiale, un secondo mondo, anch’esso legalizzato ma delimitato da rigorosi confini temporali. Di questa seconda vita erano partecipi tutti gli uomini e donne del Medioevo, posti sullo stesso piano: attraverso il contatto familiare e libero veniva evidenziata la relatività di qualsiasi regime o ordine, tanto che ad ogni festa aveva luogo l'incoronazione di un re o di una regina. Principio cardine del Carnevale era la burla, soprattutto sotto forma di parodia del culto religioso: le forme carnevalesche erano completamente estranee alla Chiesa e esaltavano i bisogni terreni dell’uomo, ossia il cibo, i rapporti carnali, il divertimento. Durante la messa, per esempio, erano permessi scherzi licenziosi e storielle allegre per suscitare il riso al momento dell’omelia. Alla luce di tutto ciò si può interpretare il Carnevale medievale come lo strumento sociale utilizzato soprattutto dalla Chiesa per canalizzare le pulsioni terrene degli uomini in determinati periodi, al fine di garantire l’ordine e il rispetto delle regole durante il resto dell’anno.

C’è quindi chi, nell’Antica Grecia, correva in modo sfrenato nei boschi in preda all’invasamento di un dio, o chi, nel Medioevo, viveva una vita alla rovescia caratterizzata da risate e abbondanza, oppure chi, al giorno d’oggi, sente il bisogno di sfogare una pressione interna attraverso un movimento collettivo come l’occupazione.

Questo articolo vuole essere nient'altro che uno spunto per riflettere riguardo alla possibilità che i comportamenti e le dinamiche umane si ripetano nel corso della storia, travestendosi ogni volta in modo diverso ed esprimendosi a diverse intensità, e potrebbe essere interessante analizzare quanto accaduto attraverso questo filtro interpretativo.

Evidentemente la pandemia ha generato in noi ragazzi un forte bisogno di fuggire lo schema rigido delle regole - tante e poco chiare - che ormai ci accompagna da due anni, e la settimana di occupazione ha permesso alla maggior parte degli studenti di sfogare le pulsioni trasgressive e ritrovare un equilibrio con l'ambiente scolastico, e non solo.

Ovviamente l'atto di occupare la scuola non diventerà una tradizione, come lo erano il rito dionisiaco e il Carnevale, perché ci si augura che nel nuovo ordine si possa trovare una situazione di stabilità, caratterizzata da un dialogo aperto e reciproco, così che non si ripresenti la necessità collettiva di esplodere.


Marta Corradini, 3°P - 25/04/2022

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